Un'Apertura

Massimo non riusciva a prendere sonno. Continuava a girarsi tra le lenzuola via via più intrecciate, cambiando di continuo posizione. Avesse acconsentito ad andare con gli amici, sarebbe stato meglio. Comunque nottata in bianco, forse un po’ di mal di testa in più, ma compagnia e buonumore non sarebbero mancati. E poi il vino di Mimmo!

Quest’anno non aveva voluto aggregarsi all’allegra brigata che avrebbe aspettato l’alba, nel bivacco in riva al fiume, combattendo il gelo a colpi di rosso. Ricordò la notte che Alessandro, sbronzo come un bradipo, nel tentativo di far legna per il fuoco, aveva abbattuto con la motosega l’albero che reggeva la lampadina del gruppo elettrogeno, lasciando tutti al buio a ridere come matti.

Erano un po’ di giorni che non sorrideva più, da quando Alberta, senza una parola di spiegazione, lo aveva piantato. Non aveva mai creduto che un addio potesse fare tanto male, ma ora che ne sperimentava i morsi, trovava tutto triste, inutile, banale. Gli tornavano continuamente dinanzi, sorrisi, carezze, abbracci e…promesse, proprio quelle che lei non aveva mantenuto.Un’occhiata alla sveglia: le tre.

Presto per partire, e poi…per dove? Quest’anno gli mancava la benché minima cognizione dei ripopolamenti, dei tratti seminati alla chiusura, delle condizioni dei ruscelli, persino del meteo. Alberta gli aveva lasciato ogni cosa com’era ma si era portata appresso gli entusiasmi, la voglia di vivere, anche di pescare.

Raggiungere gli amici, non era il caso, la loro allegria contagiosa gli sembrava la peggiore medicina per il suo cuore malato. Eppure all’alba, di nuovo, sarebbe stata apertura e volenti o no bisognava andare. Una macchina si accese, in basso, tra colpi di tosse e lo sbattere di una portiera.

Aldo, l’inquilino del piano di sopra, si avviava al lavoro. Le quattro. Quei vermi comprati all’ultimo momento non lo convincevano per niente. Tutt’altra cosa quelli che preparava lui, pazientemente, nutrendoli e tenendoli al caldo, ma quest’anno era andata così, non si poteva recriminare. 

- Non ho neppure cambiato il filo… fa’ che si spezza al primo pesce? Ma no, era buono, e poi è sempre stato al buio, al fresco… - Pensava così, mentre rabbrividiva nel silenzio della casa deserta. Un’occhiata oltre le persiane.

Le stelle lucevano in un cielo limpidissimo e la mimosa, fiorita in anticipo nel giardino, restava immobile. Gli piaceva l’idea che il primo giorno di pesca fosse bello, per la pioggia e il vento ci sarebbe stato tempo. Mentre aspettava il caffè abbottonò la camicia pesante a quadri. Un giorno Alberta l’aveva indossata per scherzo.

Ricordava le belle gambe scoperte quando era salita sul letto civettando deliziosamente. Quanti baci, dopo, e quante carezze felici! La camicia sapeva un po’ di lei. Si distolse con l’odore del caffè ma, mentre lo versava nel latte caldo, Alberta tornò a sorridere dal fondo della tazza di porcellana.

Calzettoni di lana, pantaloni, felpa…poteva andare. In garage recuperò la canna teleregolabile, controllò un attimo la tenuta del filo nel mulinello, prese il gilet con le corone, i terminali, l’occorrente per ogni evenienza. Si infilò in tasca due scatole di lombrichi, una di larve del miele e staccò gli stivali dalla parete.

Gettando tutto nel bagagliaio, si ricordò della licenza. Tornò a prenderla e, nel controllare la validità del versamento, una foto cadde dalla custodia. Una stilettata al petto. Poggiò la foto sul tavolo e non potè trattenersi dal contemplarla ancora un momento. Poi richiuse, piano, quasi avesse paura di svegliare lei, che non c’era più.

Il motore, docile, rispose al giro di chiave e uno sguardo agli strumenti gli confermò il gelo: meno due. All’incrocio si fermò per decidere il da farsi. Gli tornò in mente la giornata di chiusura, quando, in un tratto di fiume selvaggio e desueto, si era aperto un varco tra i salici e aveva tuffato la lenza in un rigiro profondo.

Era ancora felice allora… Lo strattone quasi gli aveva tolto la canna di mano e la trota, nera, lunga un braccio, era schizzata sotto la puntura dell’amo, prendendolo di sorpresa. Si era banalmente slamata, dopo un lungo tiro alla fune, lasciandolo inebetito. Non si era modificato il corso d’acqua con le piene invernali? Chissà se la vecchia aveva mantenuto la tana nello stesso posto? Si sarebbe ricordata l’esperienza dell’amo? E se ci fosse gente?

Pensava a tutte queste cose mentre i fari bucavano il buio e l’auto procedeva sulla strada deserta. Si accorse senza stupore che Alberta era sempre nei suoi pensieri. Una volta le aveva raccolto un mazzetto di viole, il giorno dell’apertura, le prime. Lei aveva battutto le mani per la gioia e le aveva posate sui capelli. Poi lo aveva premiato con un bacio…

Dopo la curva bisognava girare a destra. La strada sterrata, ancora umida per le piogge, non presentava tracce di pneumatici. Se ne rallegrò. L’ultima cosa che avrebbe desiderato era la concorrenza di altri pescatori. Per fortuna quello era un tratto scomodo e mal raggiungibile, di conseguenza trascurato da tutti. Fermò l’auto e spense. A oriente il cielo cominciava a schiarire e una luminosità rosa si alzava a fugare la notte. Intorno solo silenzio e il frusciare leggero del fiume vicino.

Ombre silenziose sorvolarono i rami spogli e per un attimo si specchiarono sul bianco del prato laccato di brina. Alberta dormiva, le lunghe ciglia chiuse a inseguire i sogni... Scacciò via il pensiero. Al chiarore incerto preparò la roba, infilò un secondo paio di calze, agganciò gli stivali alla cinta.

Guardando contro luce montò una piccola biglia di piombo e un pezzo di nylon nuovo al quale annodò un amo robusto, storto, grosso. Rialzando gli occhi scoprì che la luce era cresciuta ancora e il sentiero che scendeva all’acqua si era fatto ben visibile. Una gallinella lanciò il suo grido mentre si faceva strada tra i rami e una folaga partì sciabattando per planare sulla riva opposta.

Trovò tutto come lo aveva lasciato, la vegetazione meno folta, perché i salici avevano perduto le foglie e le ortiche erano state bruciate dal gelo. Non fece fatica a ritrovare  il punto che cercava e con speranza e gioia si accorse che nulla era cambiato. Un viso bellissimo…

Fermo sulla sponda respirò a pieni polmoni l’aria gelida: era contento di essere vivo, e di essere a pesca. Allungò con calma la canna lasciandone due pezzi chiusi, mise in tensione la lenza per verificare la scorrevolezza degli anelli, aprì il portaesche e cercò il verme più grosso. Infilandolo lentamente nell’amo cominciò a pensare:

- Sarebbe stata meglio un’alborella, o un vairone… Una trota così grossa è abituata a predare piccoli pesci  e, se c’è ancora, è probabile che proprio di quelli vada a caccia… - Alzò gli occhi per vedere l’aurora tingere la montagna. Il piombo toccò l’acqua con un lieve tonfo e la lenza scorse, morbida, a seguirne la caduta.

Trovato il fondo, Massimo cominciò ad accompagnare la discesa della montatura alla stessa velocità della corrente. Una volta, due, tre… un po’ più avanti,  niente. - Lo sapevo, non c’è più. – E con rammarico cominciò a pensare di spostarsi. Proprio mentre si muoveva, però, si accorse di un tronco finito in acqua dalla riva di fronte, parallelo alla sponda. - Non si sarà mica trasferita là sotto? - Gli frullò per la testa e, senza aspettare altro, allungò completamente e affondò dietro l’ostacolo.

La risposta non si fece attendere: il cimino piegò sotto una potente abboccata e lenti scossoni corsero lungo la canna fino al polso. L’uomo aspettò col cuore in gola per istanti interminabili, voleva essere certo che l’amo prendesse profondo, non sul labbro. Finché, nello stesso senso della corrente, sparò la ferrata.

La teleregolabile gemette, incordandosi, ma nulla accadde. Poi, lentamente, sotto un’inesorabile trazione, il filo cominciò a muoversi e il pesce iniziò la lotta. Massimo aveva intuito giusto: la tana della trota era sotto il tronco abbattuto e lei, con caparbia ostinazione, tentava di tornarvi sfruttando la forza della corrente.

Due volte saltò, puntando in un esplosione di gocce verso la dimora sommersa, ma Massimo, lavorando a filo d’acqua riuscì a contrastarne la fuga. Col tempo fermo, sospeso nel vapore esalante, il braccio di ferro tra il pescatore e la gigantesca trota si protraeva senza che lei desse cenni di resa.

Massimo, temendo che il terminale duramente provato potesse spezzarsi da un momento all’altro, agiva con delicatezza, ora di canna, ora di frizione, contrastando le evoluzioni della fario allamata.

Il guadino, ecco cosa aveva dimenticato! Alzare quel bestione di peso, neanche a pensarlo, afferrarlo per le branchie, un’impresa, anche se appariva l’unica soluzione. Piano piano, chiudendo la canna un pezzo alla volta ad ogni cedimento, era riuscito a costringere il pesce sottosponda, in una piccola morta. Disteso a terra, nel fango, Massimo aveva tentato di artigliarlo nelle branchie.

Ma la preda, alla vista della mano, aveva scartato, tornando nel vivo della corrente e ricominciando la fuga. Al quarto tentativo, esasperato, lui posò a terra la canna e, stringendo il filo, si stese ancora di più per cercare l’epilogo. Il terminale, incolpevole, si schiantò, ma la figura iridescente fluttuò esausta al limite della corrente, incapace di approfittare della ritrovata libertà.

Massimo allora si lasciò scivolare nell’acqua e la trattenne, abbracciata, fino a quando smise di agitarsi. Risalito, gocciolante e irrigidito, restò a contemplare la superba creatura distesa sull’erba. Era enorme, più di quanto aveva stimato. L’amo aveva fatto presa bene e si vedeva saldamente confitto nel palato. Un senso di appagamento attraversò il cuore del pescatore. Per qualche istante restò a respirare al ritmo delle branchie dell’avversaria sconfitta, poi si decise.

La sollevò delicatamente, scese la riva in un punto comodo e sostenne l’animale stremato fino a farlo ossigenare. Quando, con un guizzo, la trota scomparve, a Massimo finalmente spuntò sulle labbra un sorriso, il primo, dopo tanti giorni. Solo allora si accorse di essere inzuppato e di stare gelando.

Tornato alla macchina e acceso il motore, cominciò a togliersi di dosso, tremando, gli indumenti bagnati. Gli amici avrebbero avuto di sicuro qualcosa di forte da bere, ma lui non aveva lasciato a casa solo il guadino.

Si guardò intorno: il sole splendeva alto, ormai, la brina si scioglieva fumando, scoprendo il verde dell’erba. A casa aveva lasciato un pezzo di cuore, anche. Per fortuna lo aveva ritrovato, a pesca, in un giorno indimenticabile, da favola. L’apertura, appunto.

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